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Sulla mia pelle: la storia di Stefano Cucchi riguarda tutti noi

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Sulla mia pelle: la storia di Stefano Cucchi riguarda tutti noi
Definire necessario “Sulla mia pelle”, il film sulla vicenda personale e drammatica di Stefano Cucchi, non è un esercizio di retorica. Ci sono delle ragioni, almeno tre, che rendono la pellicola fondamentale, perché contribuisce a un dibattito che va ben oltre i diritti del detenuto. Il film parla della vita di Stefano Cucchi, ma parla anche delle nostre vite e alle nostre vite. Riaccende i riflettori sulla vicenda personale del geometra romano deceduto nell’ottobre 2009 e la rende collettiva.

Il film può essere a ragione considerato una delle migliori pellicole di impegno civile prodotte negli ultimi vent’anni in Italia: difetti ve ne sono, a partire da interpretazioni forse eccessivamente macchiettistiche, una su tutte quella di Jasmine Trinca, divenuta una sosia di Ilaria Cucchi. Alessandro Borghi ha sicuramente il merito di restituire a Stefano Cucchi un’umanità tale da rendere disumano l’intero contesto che gli sta intorno. L’omertà e il sistema di regole spietate del regime carcerario trasformano le celle in luoghi terrificanti, claustrofobici. Così, proprio grazie alla capacità di Alessandro Borghi di rendere “suo” il personaggio di Stefano Cucchi, questa vicenda tragica diventa storia di tutti noi, specchio del nostro passato più recente. La sua pelle diventa la nostra stessa pelle. Alla fine della proiezione, noi stessi siamo feriti, estremamente vulnerabili.

“Sulla mia pelle” ha però anche un altro pregio: il film può e deve contribuire a riaprire un dibattito ben più ampio, che riguarda appunto la non-vita nei penitenziari italiani. Forse sarebbe meglio definirla l’altra vita, un contesto parallelo nel quale le regole diventano altre. La pellicola scardina la dottrina securitaria fatta di carcerazione preventiva e pene severe coi deboli, ma che diventano ben più morbide quando si tratta di scalfire i potenti. Dal 2009, anno della morte di Stefano Cucchi, a oggi mai i morti nelle carceri italiane sono scesi sotto quota 100 e in circa quattro casi su dieci parliamo di detenuti suicidi.

La stessa gestazione di questo articolo è stata resa complicata dal drammatico figlicidio commesso da una detenuta tedesca nel carcere di Rebibbia. Una tragedia che pone molti interrogativi sulla realtà carceraria italiana, ma che in questi giorni di settembre non è un caso isolato. Due sono stati i suicidi nel mese di settembre, entrambi sono detenuti stranieri. Una delle due vittime è una donna nigeriana di 35 anni, che si è uccisa nel carcere di Genova Pontedecimo. La donna entra in carcere il 31 agosto, il primo settembre si uccide. “Non è possibile che un detenuto appena arrestato non riceva la visita di primo ingresso”, denuncia Fabio Pagani, segretario regionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Il giorno dell’uscita di “Sulla mia pelle” è invece morta nel carcere della Giudecca di Venezia una detenuta di 51 anni, in carcere per un furto: stava male e di recente era stata ricoverata. Ha avuto un malore poco prima che il suo legale chiedesse al Riesame di rivedere la custodia cautelare. Tutto mentre il dibattito sulla giustizia viene veicolato sull’inasprimento delle pene per atti osceni in luogo pubblico.

Infine, il film ha l’indiscutibile merito di aver aperto uno spazio di libertà nelle maglie del copyright: centinaia di proiezioni “private” in altrettanti spazi sociali, quindi pubblici, costituiscono un precedente importante. Hanno contribuito a rendere appunto collettiva una questione privata. Un nuovo sforzo andrebbe ora fatto: si tratta di liberare ulteriormente la pellicola, di mostrarla nelle scuole e in luoghi solitamente non altrettanto accessibili come può essere appunto uno spazio sociale autogestito. Creare spazi di discussione, che vadano al di là della rabbia, del senso di impotenza, dell’emozione e della commozione, sentimenti che scatena la proiezione del film. Fare sì che - calata l’attenzione sulla pellicola - non cali quella sui diritti civili e sociali. 


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